Che cosa c’è che non va?

Che cosa c’è che non va?

Il seguente articolo è stato pubblicato recentemente nell’Osservatorio sul Debito Pubblico per il terzo trimestre 2013. N.B. Cliccare per ingrandire le immagini:

 

Non c’è altro modo che iniziare questo commento con una domanda: che cosa c’è che non va nella Figura 1?

Figura 1: Debito pubblico e interessi passivi netti in Italia dal 1990 – 2012

Fonte: Elaborazione dell’autore su dati ISTAT

La risposta è che durante gli ultimi 22 anni il debito pubblico italiano è aumentato quasi del 200%, ma durante lo stesso periodo la spesa statale per gli interessi passivi netti è aumentata un po’ meno del 25%.

Nella Figura 1 si evidenzia il bello e il brutto dell’Unione economica e monetaria europea per l’Italia. Da un lato, l’ottimismo creato dalla spinta verso l’integrazione economica in Europa ha dato all’Italia la possibilità di finanziarsi a tassi relativamente contenuti rispetto al passato, ma dall’altro questo vantaggio è stato sperperato attraverso una spesa pubblica incontrollata.

Oggi, l’Italia si trova con un debito pubblico tra i primi posti in classifica a livello mondiale senza che, come viene evidenziato costantemente in questo Osservatorio, nessuna vera politica di contenimento della spesa venga attuata. Il solo pensiero dell’austerità viene vissuto come se fosse una punizione immeritata, ma, come dice John Mauldin: “Ricordatevi, l’austerità non è una punizione ma è la conseguenza dei fallimenti passati sul controllo della spesa.” [1] È importante sottolineare che finora in Italia di austerità non si è vista traccia, perché la spesa pubblica continua ad aumentare. [2]

Gli interessi passivi nel contesto delle entrate statali

Si riporta un grafico dell’andamento degli interessi passivi netti come percentuale delle entrate statali.

Figura 2: Interessi passivi netti espressi come percentuale delle entrate statali 1990 – 2012

Fonte: Elaborazione dell’autore su dati ISTAT

Questo dato è importante perché fa capire l’impegno richiesto dalle entrate statali solo per fare fronte alla spesa per interessi passivi. Questa figura dà la netta impressione che l’Italia non abbia molto da preoccuparsi: essendo sopravvissuta agli anni ’90 in cui più del 30% delle entrate statali venivano impegnate a pagare gli interessi passivi, che problemi potrà mai avere nel 2013 a impegnare per il medesimo scopo appena il 16% delle proprie entrate? La risposta è: per il momento, nessuno. La struttura del debito pubblico italiano è tale che, se si esclude l’ipotesi di una chiusura totale del mercato alle nuove emissioni del Tesoro, un eventuale rialzo dei tassi di interesse avrà un effetto graduale sulla spesa per interessi.

Bisogna pensare però alle differenze tra l’Italia del 1990 e quella di 2013; la più importante è il profilo demografico del Paese, dove i contribuenti impiegati nel settore privato devono sorreggere un numero crescente di persone che in qualche modo “dipendono” dallo Stato. I dati parlano chiaro: la voce “Prestazioni sociali in denaro” è cresciuta quasi del 200% negli ultimi 22 anni e adesso conta per il 41% delle uscite correnti dello Stato, contro il 31% del 1990. Siccome queste prestazioni sociali sono pressoché intoccabili, l’unica conclusione è che, rispetto agli anni ’90, l’Italia ha molta meno flessibilità relativamente al controllo della spesa e quindi non può permettersi di impegnare una grande percentuale delle proprie entrate per pagare gli interessi passivi.

Quale ipotesi per il futuro?

In considerazione del fatto che il debito pubblico continua a crescere sia in termini assoluti (si veda la Figura 1) che in termini relativi (il rapporto Debito/Pil è evidenziato altrove in questo Osservatorio; si propone anche un grafico del rapporto Debito pubblico/Entrate statali – Figura 3), dovrebbe essere chiaro che, a parità di altri fattori, arriverà un momento in cui il mercato richiederà un maggiore premio per il rischio di un default italiano.

Figura 3: Rapporto Debito Pubblico/Entrate Statali 1990 – 2012

Fonte: Elaborazione dell’autore su dati ISTAT

Come già menzionato sopra, un rialzo dei tassi d’interesse avrà un effetto graduale sugli interessi passivi a causa del fatto che gran parte del debito pubblico si trova sotto forma di Btp, ovvero titoli che non risentiranno dell’effetto dei tassi più alti fino al momento della scadenza (che comporterà nuove emissioni).

Si è deciso di simulare un ritorno al tasso d’interesse medio sul debito pubblico dal 1990, ovvero il 6,40% (nel 2012 il tasso è stato del 4,22%) [3]. Questo ritorno al tasso medio del 6,40% comporta quindi un aumento complessivo del 2,18% rispetto al livello del 2012. L’aumento è stato impostato in modo graduale, dividendolo in 5 anni, ovvero aumentando il tasso d’interesse sul debito pubblico dello 0,44% l’anno.

La simulazione tiene in considerazione anche l’andamento di due altri importanti variabili (si veda in parentesi le ipotesi utilizzate):

  • il debito pubblico complessivo (una crescita del 3,60% l’anno, pari all’aumento avvenuto nel periodo 2008 – 2012);
  • le entrate statali (una crescita dello 0,83% l’anno, pari all’aumento avvenuto nel periodo 2008 – 2012). Si noti che questa ipotesi è piuttosto ottimistica: in presenza di un Pil stagnante (nel periodo 2008 – 2012 è stato sostanzialmente fermo), aumentare ancora le entrate pare una missione piuttosto difficile. [4]

I risultati di queste simulazioni vengono riportati nelle Figure 4, 5 e 6, che aggiornano le Figura 1, 2 e 3 per la simulazione del periodo 2013 – 2017.

Figura 4: Debito pubblico e interessi passivi netti in Italia dal 1990 – 2012, con simulazione per il periodo 2013 – 2017.

Fonte: Elaborazione dell’autore su dati ISTAT

Figura 5: Interessi passivi netti espressi come percentuale delle entrate statali 1990 – 2012, con simulazione per il periodo 2013 – 2017

Fonte: Elaborazione dell’autore su dati ISTAT

Figura 6: Rapporto Debito Pubblico/Entrate Statali 1990 – 2012,
con simulazione per il periodo 2013 – 2017

Fonte: Elaborazione dell’autore su dati ISTAT

 

Si precisa che queste non sono previsioni, ma simulazioni utili per evidenziare le difficoltà obiettive della situazione in cui l’Italia si trova.

La conclusione è molto semplice:

Se si continua con l’andamento attuale del debito pubblico, un modesto aumento dei tassi d’interesse potrebbe rivelarsi estremamente grave per lo stato dei conti pubblici.

Andrew Lawford

 

Note

[1] John Mauldin: “The Mother of All Painted-In Corners” (Thoughts from the Frontline – 25/5/13. Per chi fosse interessato a seguire questo interessante economista e blogger, i suoi articoli vengono tradotti e pubblicati dal sito www.scenarifinanziari.it. Il link alla versione italiana dell’articolo è questo.

[2] Definizione di “Austerità” (dizionari.corriere.it): “Politica di limitazione dei consumi privati e delle spese pubbliche”.

[3] Il tasso d’interesse sul debito pubblico è calcolato dividendo gli interessi passivi netti per il debito pubblico totale, ovvero non soltanto lo stock di titoli di stato.

[4] L’ipotesi di un ulteriore aumento delle imposte fa tornare in mente un commento di Winston Churchill: “Una nazione che si tassa nella speranza di diventare prospera è come un uomo in piedi dentro un secchio che cerca di sollevarsi tirando il manico”.

 

Nota sulla metodologia e fonte dati

Fonte dati: ISTAT – Sintesi dei conti delle Amministrazioni Pubbliche 

Per i dati sulle entrate statali si sono fatte le seguenti modifiche per depurare i dati il più possibile dagli effetti della previdenza sociale:

Totale entrate complessive – Contributi sociali effettivi – Contributi sociali figurativi – Interessi attivi

Gli interessi attivi sono stati sottratti perché gli interessi passivi netti li tiene già in considerazione.

Si nota che gli squilibri presenti nei conti dello Stato tra prestazioni sociali pagate e contributi incassati sono notevoli e sicuramente degni di approfondimento, ma non vengono trattati in questo articolo.

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Andrew Lawford
andrew@mazzieroresearch.com
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