Quando regna il rischio di carriera

Quando regna il rischio di carriera

Mazziero Research ha il piacere di proporre un articolo fornito da Scenari Finanziari. I temi affrontati sono importantissimi e quindi ne consigliamo la sua lettura.

 

Quando regna il rischio di carriera

Ho concluso la newsletter (Absolute Return Letter) del mese scorso dicendo che solo quando i politici cominceranno ad affrontare le vere cause di fondo che sono la base dell’attuale crisi saremo in grado di lasciarci alle spalle i problemi degli ultimi anni.

Quello che non ho detto, ma che probabilmente avrei dovuto dire, è che di fronte ad una mancanza di interesse quasi universale da parte dei politici di entrambi i lati dell’Atlantico nell’affrontare le profonde cause questo farà si che i rimbombi della crisi continueranno ad esserci ancora per un bel po’ di tempo. Per parafrasare John Mauldin i politici sono come gli adolescenti. Optano per la scelta più difficile solo quando tutte le altre opzioni sono state esplorate.

Finora solo la Grecia ha raggiunto quel punto. Gli spagnoli sono probabilmente i prossimi in arrivo. E ci saranno molti altri paesi costretti a prendere decisioni difficili prima che questa crisi sia veramente terminata e siamo passati oltre.

Questa cosa ha delle ripercussioni sull’asset allocation e sulla costruzione del portafoglio. La crisi del credito ora nel suo sesto anno (1) ha cambiato il panorama degli investimenti su due fronti molto importanti. Gli investitori hanno dovuto abituarsi ad aspettative di bassi rendimenti – e questo non è un qualcosa che viene in modo naturale all’Homo sapiens – ed inoltre hanno dovuto adattarsi a ciò che viene spesso definito come un ambiente con elevata correlazione.

Perché la MPT non funziona

Cominciamo con un breve riepilogo di ciò che la crisi del credito ha generato verso la Modern Portfolio Theory (MPT). Se su Google scrivete “MPT”, Wikipedia vi dirà che si tratta di “una formulazione matematica relativa al concetto di diversificazione degli investimenti, con l’obiettivo di selezionare un insieme di attività di investimento che hanno complessivamente un rischio inferiore rispetto ad un qualsiasi singolo investimento.”

Tutto questo era molto positivo in quanto prima le classi di attività si comportavano come Harry Markowitz aveva ipotizzato quando ha prodotto il suo primo articolo sul MPT nel 1952. Tuttavia la realtà è stata molto diversa nel contesto post-crisi. E a questo proposito ho fatto una semplice analisi di correlazione per illustrare il problema (si veda il grafico 1).

Tra il 2000-03 il mercato è stato fortemente ribassista. Tutto questo è arrivato dopo un mercato toro che è durato 18 anni e che ci aveva portato a delle valutazioni che non si erano mai viste prima. Quando alla fine la bolla scoppiò i prezzi azionari in tutto il mondo caddero come un sasso. In quel momento i seguaci del MPT continuarono ancora ad avere dei buoni risultati, in quanto le altre classi di investimento offrirono agli investitori almeno una parziale protezione.

Nel grafico 1 che trovate qui di seguito ho confrontato le correlazioni durante il periodo 2000-03 (in azzurro) con le attuali correlazioni (in blu scuro). Come si può vedere tranne una o due eccezioni le correlazioni ora sono generalmente molto più alte.

Ora si può ragionevolmente limitare questa analisi al concetto di ‘accademicamente interessante ma perché dovrei preoccuparmi di questa cosa?’ se non fosse per il fatto che la maggior parte degli investitori di tutto il mondo continuano a gestire il denaro in un modo che è profondamente radicato nella scuola di pensiero della MPT, questo anche quando i fatti suggeriscono che sarebbe necessario un approccio diverso nell’asset allocation e nella costruzione del portafoglio.

 

Grafico 1: correlazioni tra le classi di investimento (2007-12 vs 2000-03)

Fonte: MPI Stylus, Absolute Return Partners LLP

Al giorno d’oggi solo una manciata di titoli sovrani sono considerati dei beni rifugio. Praticamente tutte le altre classi di investimento vengono ora considerate attività a rischio e si muovono più o meno tutte in tandem. Anche l’oro sembra in questo periodo essere un po’ un’attività rischiosa.

Se diamo un altro sguardo al grafico 1. Nel mercato orso del 2000-03 le materie prime sono state  una eccellente diversificazione contro il rischio del mercato azionario con le due classi di investimento che erano perfettamente non correlate (0,05). Attualmente le due sono altamente correlate (0,69). Da questo ne consegue che oggi non siamo solo in un ambiente con bassi rendimenti come dimostra il misero ritorno delle azioni a partire dalla fine del mercato toro secolare nei primi mesi del 2000, ma non si può nemmeno più fare affidamento sulla capacità di diversificare il rischio.

Ora forse sarebbe meglio definire il rischio. Quando si parla normalmente di gestione degli investimenti il rischio è considerato di solito sinonimo di rischio di volatilità. Si potrebbe considerare la tesi secondo cui il rischio di volatilità è un rischio che la maggior parte degli investitori potrebbe e dovrebbe ignorare (a condizione che la leva finanziaria non venga utilizzata) e che l’unico elemento di rischio più importante – è quello della completa perdita del capitale.

Anche se teoricamente corretto il motivo per il quale non si può ignorare il rischio di volatilità è che questo influenza profondamente il comportamento degli investitori. Pochi investitori hanno il coraggio di restare investiti quando è in atto una tremenda tempesta finanziaria.

Buffett’s Alpha

Una parte del problema nasce dal fatto che in genere gli investitori hanno delle aspettative non realistiche. Andrea Frazzini, David Kabiller e Lasse Pedersen un po’ di tempo fa hanno pubblicato un interessante articolo dal titolo Buffett’s Alpha (lo potete trovare qui) che è particolarmente ricco di interessanti osservazioni. Cito dalla loro conclusione:

“La performance di Buffett è eccezionale in quanto rappresenta il miglior titolo e fondo comune di investimento che esiste da almeno 30 anni. Tuttavia il suo indice di Sharpe è pari a 0,76 un valore molto basso rispetto a quanto molti investitori potrebbero immaginare. Mentre i migliori gestori spesso sostengono di essere in grado di raggiungere un indice di Sharpe superiore a 1 o 2, nel lungo termine gli investitori farebbero bene ad impostare per se stessi un obiettivo realistico in termini di performance considerando i difficili periodi che anche Buffett ha vissuto.”

Per quelli di voi che non hanno molta familiarità con il concetto espresso dall’indice di Sharpe, questo misura il rendimento in eccesso (ossia l’extra rendimento rispetto al tasso degli investimenti privi di rischio) per ogni unità di volatilità. L’indice di Sharpe del mercato azionario statunitense è pari a circa 0,39. In altre parole Buffett ha generato un indice di Sharpe pari a quasi il doppio della media del mercato. Pochi potrebbero non essere d’accordo che Warren Buffett è stato un eccezionale investitore di questa generazione. Se un supremo talento può ‘solo’ fornire un indice di Sharpe pari a 0,76 che cosa fa si che gli attuali professionisti gestori di fondi possono continuare a promettere (2) agli investitori la prospettiva di saper generare un indice di Sharpe pari a 1 o anche superiore?

Come si dice sempre la prova sta nel budino e temo che in questo caso particolare il budino sia stato venduto ben oltre la sua data di scadenza. Il più recente studio che sono stato in grado di trovare sugli indici di Sharpe è stato condotto dai Fondi Blackstar su 555 trader che nel 2009 operavano sulle materie prime – conosciuti anche come CTA o gestori di managed future (grafico 2). I traders sulle materie prime sono particolarmente interessanti da esaminare in quanto rispetto a qualsiasi altra strategia sugli investimenti alternativi hanno un lungo track record e questo ci permette di distinguere tra fortuna e competenze.

Grafico 2: Indice di Sharpe dei Traders su Materie Prime

Fonte: Mebane Faber, Fondi Blackstar

Con il grafico 2 offriamo un solido esempio di una semplice torta da servire al gruppo notoriamente iper-ottimista dei money manager. Quando il periodo di riferimento viene limitato a 5 anni o ancora a meno un sacco di gestori riesce a raggiungere un indice di Sharpe superiore a 1 (anche quando un orologio è rotto comunque segna il tempo due volte al giorno). Solo pochi riescono a mantenere uno sharpe ratio superiore ad 1 per più di 5 anni e dopo 10 anni non c’è più praticamente nessuno alla sinistra del grafico. La lezione? La fortuna gioca un ruolo non indifferente nel breve e medio termine, ma poi la realtà dei fatti a poco a poco ridimensiona anche i più fortunati. Buffett è ancora il migliore!

I mercati emergenti sono una soluzione?

Nel provare a rispondere alle deboli prospettive di crescita negli Stati Uniti e in Europa, gli investitori negli ultimi anni hanno iniziato ad allocare quantitativi crescente di capitale verso i mercati emergenti con la speranza che una maggiore crescita in quei paesi avrebbe generato dei rendimenti superiori. C’è solo un problema in questo tipo di strategia non c’è però nessuna reale prova a sostegno della tesi che una forte crescita del PIL generi elevati ritorni nel mercato azionario.

Elroy Dimson, Paul Marsh e Mike Staunton della London Business School nei primi mesi del 2010 hanno fatto un analisi storica che copriva 83 paesi per più di quattro decenni (3) i cui risultati sono stati pubblicati nell’annuario del 2010 del Credit Suisse Global Investment Returns Yearbook. Dalla loro analisi non è emerso alcun legame o in modo molto limitato che permetta di sostenere l’idea che la crescita economica guida i rendimenti del mercato azionario (grafico 3).

In particolare durante il decennio degli anni 1970 (i puntini grigi nel grafico 3) la correlazione in 23 paesi era pari a 0,61. Nel 1980 (in azzurro) vi era tra i 33 paesi una correlazione pari a 0,33. Nel 1990 (blu scuro) la correlazione tra 44 paesi era in realtà negativa (-0,14) e, infine, negli anni 2000 (colore rosso) la correlazione tra 83 paesi è stata dello 0,22.

Quando vengono messe assieme tutte le osservazioni nel grafico 3, la correlazione che ne esce tra la crescita del PIL e le performance del mercato azionario è dello 0,12. L’R-squared è circa l’1% il che suggerisce che il 99% delle variazioni dei rendimenti azionari sono associati ad altri fattori rispetto alle variazioni del PIL. È possibile trovare qui l’intero studio.

Grafico 3: Rendimenti Azionari Globali verso crescita del PIL, 1970-2009

Fonte: Credit Suisse Global Investment Returns Yearbook 2010

A questo punto con le prospettive economiche in Europa e negli Stati Uniti che dovrebbero continuare a rimanere sotto tono e con le altre tipologie di investimenti rischiosi che rimangono altamente correlati con i mercati emergenti e non necessariamente offrono una via d’uscita agli investitori; che cosa si può fare per un raggiungere un rendimento sul capitale di rischio di tutto rispetto mantenendo un adeguata diversificazione?

Errato Investimento dei capitali

Sono stato un osservatore dei mercati finanziari e di coloro che operano all’interno dei mercati per quasi 30 anni. Non ho mai visto prima d’ora gli investitori esperti prestare così tanta attenzione al rischio di carriera rispetto a quanto stanno facendo attualmente. Una preoccupazione rispetto al rischio di carriera cambia i modelli di comportamento. Le decisioni diventano più difensive e talvolta anche meno razionali. (Prima di rischiare di offendere molti dei nostri lettori, forse dovrei sottolineare che ciò che può essere considerata da un certo punto di vista una stupida decisione di investimento, può invece non necessariamente essere irrazionale da un punto di vista di carriera.)

Secondo gli ultimi dati di Hedge Fund Research ci sono stati di $70 miliardi di raccolta netta per il settore degli hedge fund nel 2011. $50 miliardi sono andati a fondi con più di $5 miliardi in gestione. Si tratta di una statistica impressionante se si considera che affidabili ricerche documentano che i piccoli gestori superano costantemente i loro coetanei più grandi. Suppongo che nessuno sia mai stato licenziato per avere investito in IBM (sigh).

La cattiva allocazione del capitale può anche essere determinata da fattori che sfuggono al controllo dell’individuo. Il settore pensionistico britannico a questo proposito è un esempio calzante. Con 84% delle prestazioni pensionistiche del Regno Unito a schema definito che sono già ora insostenibili e con le passività che superano le attività di oltre £300 miliardi (4), l’autorità di regolamentazione britannica e i consulenti previdenziali stanno tutti facendo una considerevole pressione sui trustee del settore pensionistico, che spesso sono persone che non sono capaci di far fronte a situazioni complesse come ad esempio l’attuale crisi del credito. Un risultato di questa azione è stato un forte esodo dai rischiosi investimenti azionari verso le obbligazioni che si ipotizza siano meno rischiose (grafico 4). Vedremo chi riderà per ultimo.

Grafico 4: Allocazione dei fondi pensione del Regno Unito tra azioni e obbligazioni

Fonte: “Chi detiene il maggior rischio in Europa sulle pensioni?”, Morgan Stanley, Agosto 2012

In un momento in cui in UK i multipli dei P/E sono quasi ai minimi di 30 anni e gli UK Gilt vengono scambiati ad un livello estremamente basso in termini di rendimento i flussi di capitale dovrebbero, se gli investitori si comportassero razionalmente, muoversi in direzione esattamente opposta – lontani dalle obbligazioni e dentro le azioni.

Il premio di illiquidità

Il premio di illiquidità è l’extra rendimento che gli investitori chiedono per detenere un investimento illiquido rispetto ad uno liquido dello stesso tipo. Il premio di illiquidità può muoversi all’interno di un ampio range e di solito più alto durante i periodi di maggiore stress. La crisi del credito ha portato ad una drammatica caduta dell’interesse verso gli investimenti illiquidi, il che ha fatto si che il premio di illiquidità sia recentemente aumentato in modo sostanziale.

Allo stesso tempo mentre è diminuito l’interesse per gli investimenti illiquidi le opportunità sono invece aumentate. In tutta Europa le banche stanno riducendo la loro disponibilità nel fornire  prestiti con la conseguenza che ha soffrire maggiormente sono le piccole e medie imprese.

Questo ha dato origine ad una nuova attività dove i fondi pensione e gli investitori a lungo termine forniscono capitali per agevolare i prestiti al di fuori del sistema bancario tradizionale. Dato quello che aspetta le banche in termini di nuovi e sempre più stringenti requisiti di capitale, questo settore crescerà in modo molto significativo nel prossimo decennio.

Tuttavia i nuovi dati forniti dalla BCE ci dicono che i bilanci delle banche europee sono in realtà in assoluto i più ampi da sempre (grafico 5), quindi complessivamente le banche hanno semplicemente spostato la loro composizione patrimoniale allontanandosi dai prestiti e spostandosi verso gli investimenti speculativi, che sono inoltre finanziati a basso costo tramite la BCE.

In altre parole il settore bancario europeo è diventato uno dei più grossi hedge fund a disposizione dei paesi europei per l’acquisto del proprio debito. Tutto questo dovrà essere ad un certo punto ridotto evidenziando quindi che il processo di riduzione della leva finanziaria nel settore bancario europeo è tutt’altro che terminato.

Ipotizzando che alla fine le banche europee dovranno portare la leva a livelli più bassi, simili a quelli statunitensi o giù di lì le attività totali del settore bancario europeo dovranno essere ridotte dai circa $45000 miliardi dollari di oggi a meno della metà. Tutto questo non solo sarà doloroso ma potrebbe anche far si che il premio di illiquidità aumenti ulteriormente.

L’investitore più esperto cercherà di trarre vantaggio da queste inefficienze e allocherà il suo capitale dove gli altri non vanno. Nel lungo periodo questa è probabilmente una strategia vincente.

Grafico 5: Attività detenute dalle banche Europee

Fonte: Bloomberg

Convergenza vs divergenza

I nostri amici di Altegris lo scorso mese di luglio hanno pubblicato un interessante paper su ciò che giustamente hanno chiamato Strategie d’investimento convergenti vs quelle divergenti (potete trovare il documento su www.altegris.com). Le strategie convergenti sono solitamente sospettose – tradizionalmente sono strategie long-only assieme anche ad un certo numero di strategie alternative che sono fortemente correlate tra loro.

Le strategie divergenti d’altra parte (e cito) “… l’obiettivo è quello di far profitto quando le valutazioni fondamentali vengono ignorate da parte del mercato. Queste strategie – di cui i managed futures sono il primo esempio – cercano di individuare e sfruttare i movimenti dei prezzi, spesso esemplificandoli attraverso una serie di movimenti di prezzo che riflettono trend del mercato e un sentiment diverso da parte degli investitori”.

L’articolo si conclude – e sono pienamente d’accordo su questo – ossia che gli investitori hanno bisogno di inserire strategie di investimento divergenti nei loro portafogli cosi come fanno i trader di materie prime, se vogliono proteggersi dalle forti cadute durante le fasi di forte stress del mercato.

Alexander Ineichen di Ineichen Research and Management è arrivato ad una simile conclusione quando ha pubblicato un documento all’inizio di quest’anno dal titolo Diversificazione? Quale diversificazione? Esaminando i cosiddetti 20 incidenti finanziari a partire dal 1980 Ineichen ha scoperto che tra tutte le strategie di investimento alternative che ha esaminato, quelle basate su managed futures sono quelle che di gran lunga hanno fatto il miglior lavoro in termini di tutela dei portafogli nelle fasi più difficili (grafico 6a). È interessante anche notare che i managed futures si sono comportati anche meglio dell’oro durante l’arco temporale preso in esame. Inoltre un portafoglio diversificato investito in hedge fund potrebbe aver avuto una volatilità ridotta, ma comunque le perdite durante i periodi di forte caduta del mercato sarebbero state comunque notevoli (grafico 6b).

Tabella 6a: Managed Futures Funds in contesti di mercato difficili, 1980-2012

Tabella 6b: Hedge Funds in contesti di mercato difficili, 1980-2012

Fonte: “Diversificazione? Quale diversificazione?”, Ineichen Research and Management, Giugno 2012

Problemi di Valutazione

Secondo un recente studio dei (in modo amichevole) fanatici di SocGen Cross Asset Research, il periodo medio di detenzione di azioni negli Stati Uniti è sceso a circa 22 secondi (sic). Anche se puliamo il dato dalle operazioni ad alta frequenza e di altri computer che generano trade, non c’è dubbio che il periodo medio di detenzione di azioni continui a diminuire. E’ parte integrante del risch-on / risk-off la mentalità che prevale in questo momento.

Tuttavia tutte le ricerche che analizzano l’arte di investire nelle azioni suggeriscono che i migliori risultati sono ottenuti attraverso investimenti nel lungo termine. Infatti non è per nulla complesso. Investire quando il mercato scambia 10 volte sotto gli utili. Sedersi sul portafoglio per 10 anni e voilà si è ben posizionati per guadagnare doppi rendimenti annuali a due cifre (grafico 7). Bene questa è la storia che però non offre alcuna indicazione sui rendimenti futuri, che non è però in linea con i miei consigli. Vedremo.

Grafico 7: Rendimenti reali a 10 anni (CAGR), Azioni USA, 1881-2011

Fonti: Mebane Faber, Robert Shiller.

Il primo problema per un investitore professionale è che con una tale strategia di investimento  questa può non funzionare per i primi 2, 3 o anche 5 anni e nel momento in cui inizia fare carriera nel settore questa può veramente andar bene e sinceramente fare anche meglio. E’ quindi il suo rischio di fare carriera può fare capolino di nuovo.

Il secondo problema riguarda la confusione tra P/E a livello di mercato complessivo e P/E sui singoli titoli. La ricerca che abbiamo condotto su questo suggerisce che l’acquisto di azioni con  bassi P/E non è necessariamente una strategia vincente, dove invece lo è l’acquisto del mercato nel suo complesso nel momento in cui è molto a buon mercato (nel lungo termine).

Le implicazioni che arrivano dal grafico 7 è che se è possibile identificare i mercati azionari che stanno trattando a livelli di P/E storicamente bassi questo vi porterà ad essere probabilmente dei vincitori nel lungo termine. L’analisi riportata nel grafico 7 è stata condotta esclusivamente sulle azioni degli Stati Uniti, ma anche altri studi analoghi indicano che si tratta di un fenomeno globale.

Ora con queste cose in mente quali sono i mercati che sono attualmente a buon mercato e quali non lo sono? Non a caso i mercati che tutti amano odiare sono quelli più economici rispetto al loro livello di P/E storico (Grecia, Italia, Austria, Giappone e Portogallo nell’ordine che ho riportato), mentre quelli di cui tutti sono innamorati sono i più costosi (Thailandia, Malesia, Indonesia, Cile e Sud Africa sempre nell’ordine riportato). Tuttavia noto con una certa serenità che in questo momento nessun mercato azionario al mondo sembra essere ridicolamente caro rispetto a questa misura.

Value o Growth?

Nel fare un passo in avanti nella discussione sulle azioni, uno dei maggiori dibattiti tra i gestori di portafogli azionari è se inserire nei portafogli titoli value o growth. Tuttavia una recente ricerca sembra suggerire che ci sia una terza via che è di gran lunga migliore rispetto agli altri due stili di investimento.

I nostri amici di SocGen hanno recentemente pubblicato il risultato di un intenso lavoro che hanno condotto sul tema che suggerisce che gli investitori non dovrebbero concentrarsi né sui titoli growth e né su quelli value, ma invece sulla qualità dei titoli. La qualità è ovviamente un termine soggettivo ma questi possono essere sia value che growth. L’approccio adottato dalla SocGen sottolinea la qualità del bilancio ed in particolare la capacità della società di mantenere la sua politica dei dividendi. Dopo tutto i dividendi sono stati nel tempo la principale fonte dei rendimenti azionari (grafico 8). Ci siamo già purtroppo dimenticati quello che è successo durante il felice periodo toro 1982-2000.

Grafico 8: Scomposizione dei rendimenti effettivi delle azioni dal 1970

Fonte: SocGen Cross Asset Research

SocGen ha testato il proprio approccio su un periodo di tempo molto lungo e i risultati sono impressionanti (grafico 9). E’ semplicemente impossibile non considerarli. Resta ancora da vedere se la strategia può essere sostenuta per lunghi periodi di tempo, ma ho notato che la qualità ha sovra-performato nel periodo di mercato toro tra il 2003-7 sia le strategie value che quelle growth. In altre parole questo non sembra essere solo un fenomeno post crisi.

Grafico 9: Qualità verso Growth e Value

Fonte: SocGen Croce Asset Research

Conclusione

Vi è in realtà un approccio di asset allocation che non ho ancora menzionato. In un ambiente come questo dove gli sbalzi d’umore possono essere improvvisi e violenti, si può costruire un modello con un approccio molto più dinamico in termini di asset allocation.

Internamente noi operiamo con due strati di asset allocation – uno finalizzato sul lungo termine (asset allocation strategica) e uno sul breve termine (asset allocation tattica). Le normali variazioni di sentiment non influenzano le nostre decisioni strategiche di asset allocation ma certamente influenzano le nostre decisioni tattiche. Per prendere queste decisioni noi usiamo un mix di indicatori di sentiment e di indicatori tecnici.

Penso che tutto questo sia abbastanza per questo mese. Questi sono tempi difficili e di conseguenza ci si deve adattare; comunque con un approccio più creativo è infatti possibile strutturare dei portafogli che non solo sono in grado di generare un rendimento di tutto rispetto, ma possono anche essere progettati in modo da aumentare il livello di protezione nel caso si verificasse  materialmente un ribasso. Se desiderate discutere qualcuna di queste idee in modo più dettagliato, non esitate a chiamarci o scriverci una e-mail.

Niels C. Jensen

nj@arpllp.com

 

(1) Partendo dal crollo dei fondi strutturati sul credito di Bear Stearns nel giugno-luglio 2007.

(2) Non è possibile fare nessuna promessa nel nostro settore, ma ho avuto nel corso degli anni numerosi ‘scontri’ con gestori professionali di portafogli che sarebbero stati in grado di generare sistematicamente un indice di Sharpe superiore a 1. Man mano che passa il tempo mi abituerò nel chiedere a loro cosa ne pensano dell’indice di Sharpe fatto da Warren Buffett nel corso degli ultimi 30 anni. Sono sicuro che quasi certamente sovrastimeranno il numero effettivo.

(3) Non tutti i paesi nello studio avevano dei rendimenti totali disponibili per l’intero periodo 1970-2009 pertanto troviamo un numero di paesi analizzati diversi in ciascuno delle quattro decadi.

(4) Fonte: Morgan Stanley

(5) Si prega di notare che i gestori sulle materie prime (manged future funds) seguono una strategia fondamentalmente diversa dalla strategia long-only sulle materie prime alla quale si riferisce il grafico 1.

© 2002-2012 Absolute Return Partners LLP. All rights reserved.

© 2011-2012 versione italiana a cura di Horo Capital. Tutti i diritti riservati.

Niels C. Jensen – ha 28 anni di esperienza nel investment banking, private banking e asset management. Ha iniziato la sua carriera in Andelsbanken (ora Nordea) a Copenaghen. Nel 1986 entra in Shearson Lehman (poi diventata Lehman Brothers); nel 1989 entra a far parte di Goldman Sachs fino al 1996 quando passa in Oppenheimer per diventarne il responsabile europeo. A partire dal 1999 diventa responsabile del Private Wealth Europeo di Lehman Brothers. Niels fonda nel 2002 Absolute Return Partners LLP ed ora è il suo Managing Partner. www.arpllp.com

Horo Capital –  Independent Financial Advisory Firm – Via Silvio Pellico 12 – 20121 Milano – www.horocapital.it
Print Friendly and PDF

Andrew Lawford
andrew@mazzieroresearch.com
No Comments

Sorry, the comment form is closed at this time.